Interviste

Insieme a tè - Il blog di Acilia
Mercoledì 13 febbraio 2008

Una nomenclatura spirituale del tè: intervista a Renzo Cremona

L’ospite di oggi ha esordito giovanissimo: la sua prima raccolta di versi si intitola Foreste sensoriali. È nato a Chioggia (Venezia) ed è laureato in lingua e letteratura cinese. Renzo Cremona è uno scrittore molto particolare, ha una spiccata sensibilità e difende la libertà di espressione e di ricerca. Tra le altre cose, ha scritto un delizioso libretto che si lega all’universo del tè e ha dimostrato di saperne cogliere aspetti sorprendenti.  Un uomo piacevole, molto intelligente e dotato di una gentilezza antica. Lo ringrazio ancora per aver accettato di sottoporsi a questa breve intervista e per averla resa un’occasione di crescita e arricchimento.

- Renzo, come e dove ha avuto luogo il tuo incontro con il tè?

Il tè è stato un mondo che si è dischiuso piano piano attorno a me, e mi è difficile riuscire a rintracciare nel tempo il momento preciso in cui l’ho conosciuto. Se guardo indietro, però, e cerco di afferrare il ricordo che va più lontano di tutti gli altri, ho sempre la stessa immagine nitida dell’occasione in cui ho percepito chiaramente che bere un tè è in verità un po’ come mettere un piede in un mondo parallelo: ho una decina d’anni, e io e mia madre andiamo a trovare, in un bel pomeriggio di primavera, una zia che è rientrata dopo molti anni dall’estero. Fuori c’è il sole, entriamo in casa e ci sediamo. Subito lei va a mettere l’acqua sul fuoco e prepara le tazze, la teiera, i cucchiaini. La chiacchierata tranquilla, il clima rilassato e senza fretta, l’aria accogliente della casa producono in me una reazione a catena.
Da quel pomeriggio in poi, tutte le volte che ci siamo visti, io pregustavo già da prima il sapore del tè, ma, più di tutto, l’atmosfera che l’avrebbe accompagnato. Sarà forse stato che ho sempre percepito quanto bene si accordi una tazza di tè bollente ad una piacevole conversazione, sarà anche stata la sensazione di condividere in quel momento qualcosa di speciale, ma, ecco, credo che sia stato proprio allora che ho capito, anzi, sentito che il tè non è una bevanda, bensì un momento di tempo e di spazio tutto per noi.
Con gli anni ho poi proseguito la strada iniziata, inoltrandomi anche su sentieri poco battuti, e intraprendere in un secondo momento un corso di studi in orientalistica all’università mi ha sicuramente spinto ancor più verso la scoperta di questo mondo inesplorato - e in Italia ancora sconosciuto ai più, purtroppo - che è il tè.

- In che modo il tè è riuscito a ispirarti?

Il mio rapporto col tè è, se vogliamo, di natura sinestesica, va a coinvolgere un’intera rete sensoriale che si dipana da un centro che ha carattere variabile. Può essere che sia lo stato d’animo a condurmi verso un tè anziché un altro, o che viceversa sia la qualità del tè stesso ad evocare delle percezioni, delle immagini particolari. Come una palla che rimbalza all’interno di una grande stanza vuota, poi, ci sono naturalmente echi, richiami, ombre e variazioni di luce che vengono prodotte dai nuovi movimenti. Quando ho scritto il terzo quadro, ad esempio, la sensazione che ho provato assaporando un eccezionale Bai Mudan giallo - di cui, fino a poco più di un anno fa, non sapevo nemmeno l’esistenza - ha provocato dentro di me una specie di corto circuito che è andato a coinvolgere il gusto, la parola, il pensiero, lo stato d’animo, tutto: non so spiegare cosa esattamente abbia causato una tale serie di associazioni; posso solo dire che in queste associazioni sono presenti tutti gli elementi che ho potuto percepire assaporando fisicamente il tè in questione. E che si tratta, naturalmente, di elementi soggettivi.

- Raccontaci del libro.

Credo di dovere spendere qualche parola per spiegare il perché del titolo. Non era e non è mia intenzione fare il verso al celeberrimo manuale di Lu Yu, il letterato e poeta cinese di epoca Tang che ha messo per iscritto tutta una serie di informazioni relative all’origine, alla produzione e alla preparazione del tè. Il mio libro ha uno scopo e una natura completamente differenti: non si propone, infatti, di organizzare un lavoro attorno all’utilizzo della bevanda stabilendo dei precetti di correttezza, ma di apprestare una sorta di nomenclatura spirituale del tè, lasciando intravedere l’atmosfera che si crea attorno al tè stesso. Mi piaceva tuttavia l’idea di un canone, sia perché scandisce un insieme di norme - quasi a voler indicare, in senso lato, quale debba essere lo stato d’animo nel momento in cui ci si accosta ad un tè anziché ad un altro - sia perché costituisce un paradigma esistenziale in grado di rappresentare, di volta in volta, dei modelli di vita differenti, sovrapponibili, interscambiabili o semplicemente paralleli. Il tutto è nato da un progetto comune con Paolo Candeo del “Signore del tè” di Torreglia: pensavamo a come poter sensibilizzare le persone su un tema così poco conosciuto quale è il tè, e così abbiamo organizzato un recital in cui io leggo il contenuto dell’intero libretto, mentre agli ospiti intervenuti viene offerta una degustazione guidata. Il libro è organizzato in dieci quadri, otto dei quali contrassegnati dal nome di un diverso tipo di tè, più uno di apertura e uno di chiusura (acqua e fuoco) che richiamano gli elementi fondamentali nella preparazione della bevanda. Si tratta di brevissimi monologhi drammatici che percorrono i profumi e i sapori del nostro presente e del nostro passato, ma anche di un viaggio nel tempo che ci abita, fatto di nostalgie sottili, di incanti improvvisi e di braci che non si estinguono.

- Esiste un rapporto tra il tè e la poesia?

Certo che esiste. E ti dirò di più: esiste un rapporto anche tra il tè e la calligrafia, perlomeno come viene intesa in Estremo Oriente, dove è assurta al ruolo - giusto e meritato - di vera e propria arte. La calligrafia, infatti, riproduce molto da vicino le movenze dello spirito e del flusso vitale che ci attraversa, ed è la condensazione, su carta, dell’intero che ci costituisce. Anche il tè produce delle scritture nel nostro animo, e anche il tè è in grado di creare delle bellissime calligrafie: con il movimento quasi impercettibile dell’acqua, con il vapore che si solleva lento dalla tazza, con le linee che lascia sulla ceramica, persino con le bolle dell’acqua che salgono in superficie mentre lo si prepara. La poesia è per eccellenza quel genere che, come diceva Jean Cocteau, «imita una realtà di cui il nostro mondo possiede soltanto l’intuizione», perciò il tè è una forma di poesia, in quanto momento perfetto in cui si ricrea la bellezza di un ordine intangibile di cui raramente abbiamo esperienza. Quando parlo di ordine, però, non mi riferisco affatto alla ritualità della cerimonia annessa, bensì a quella disposizione d’animo che si produce nella persona che si predispone ad assaporarlo e a farlo parlare.

- Che ruolo ha il tè nella tua giornata? Quale tipologia preferisci?


Considero il tè terapeutico. Ha la capacità di riportare ordine dentro il caos. A me basta mettere l’acqua sul fuoco, preparare le foglie, sentirle sotto le dita, odorarne il profumo, guardarne il colore. Preferisco non bere tè in tazze che non abbiano il fondo bianco o, al limite, trasparente e incolore: vedere il colore di un tè è un’esperienza metafisica - come del resto berlo - perché traspone la realtà tangibile in un mondo perfetto e incorruttibile dove anche le minime differenze di sfumatura sono il riflesso di un universo possibile, un dono prezioso che ci viene fatto e che testimonia della bellezza inesprimibile di cui è ancora capace il nostro mondo stanco e logorato. Non passa giornata senza che io abbia bevuto in media sette-otto tazze di tè (in genere differente, ma non disdegno affatto il bis). Amo tutti i tè, ma in modo particolare lo Yinzhen bianco, il giallo Junshan Yinzhen, il Bai Mudan giallo di cui parlavo prima, il verde Taiping Houkui, e due Oolong che ho conosciuto di recente e mi hanno subito conquistato: l’Oolong “King’s Grade” (proveniente dalla regione del Doi Tung, in Thailandia), che ha un leggerissimo ma delizioso retrogusto di albicocche e limone pur non essendo aromatizzato, e il Milky Oolong, con quella lieve sfumatura di latte vaporizzato che lo rende unico. Poi ultimamente ho provato due tè fenomenali: un Pu-erh bianco in mattonella e il verde Qiandao Chun, dolcissimo e morbido, prodotto nello Zhejiang nella sola quantità di 150 chili all’anno. Amo anche un buon Darjeeling e molti neri. Come vedi, mi riesce difficile dirti quale tipologia preferisco: il tè è un vero universo da esplorare continuamente.

QUARTO POTERE
Anno 6 - numero 28, pag. 21 (luglio 2010)

L'intervista

di Ornella Fulco

Renzo Cremona è una delle voci più interessanti del panorama letterario nazionale. Lo abbiamo incontrato in occasione del suo intervento nell'ambito della rassegna “Terrazza d'Autore” della Fondazione Pasqua2000.

QUANDO LA PAROLA RICREA IL MONDO

Togliere dagli scaffali le parole scritte per avvicinarle ai lettori”: è questo, in definitiva, ciò che avviene quando si propone un autore alla fruizione del pubblico, smontando gli stereotipi secondo cui la poesia è difficile o addirittura inutile. Ho incontrato Renzo Cremona, senza dubbio una delle voci più interessanti del panorama letterario nazionale, in occasione del suo reading “La Parola e l'Incanto” in cartellone per la rassegna letteraria “Terrazza d'Autore” voluta dalla Fondazione Pasqua2000 in collaborazione, quest'anno, con l'Assessorato alla Cultura di Valderice.

Renzo, cosa è per te la scrittura?

“Per me lo scrittore è un affamato di vita che, però, ha ricevuto un dono in più, quello di riuscire ad elaborare in parole ciò che tutti viviamo. La scrittura è un modo per allargare le dimensioni del mondo, la parola ci permette di creare nuove realtà dove tutti possiamo abitare, le parole stesse possono essere “abitate” secondo me”.

Tu sei un esperto linguista, ci parli del tuo rapporto con la lingua e la scrittura?

“La lingua è un mondo dentro il quale possiamo entrare. Ogni volta che si estingue una lingua o un dialetto non si perdono soltanto le strutture grammaticali e verbali o le opere scritte in quella lingua, ma scompare un intero sistema, è come assistere all'estinzione dell'ultimo esemplare di una specie. Le modalità di pensiero e di espressione che ogni lingua ha proprie sono una possibilità in più di “vedere” e di “pensare” il mondo. Avere più parole per potersi esprimere, per uno scrittore, è affascinante. Come dice la mia amica poetessa Christine De Luca che vive nelle isole Shetland, conoscere due o più lingue è come banchettare in doppia misura. Io sono d'accordo, la lingua è cibo.”

Tu hai tradotto molto e sei stato tradotto in diverse lingue, pensi che tradurre la poesia sia possibile?

Il traduttore per me è come un traghettatore, le parole sono come passeggeri che stanno su una barca e tu le porti da un'altra parte, in un territorio completamente diverso. Devi essere consapevole di questo. La traduzione per me è la voce nuova che queste parole acquisiscono. A me piacerebbe molto che il nome del traduttore comparisse sul libro con la stessa evidenza del nome dell'autore, come se fa in musica con i grandi interpreti o i direttori d'orchestra: l'opera è la medesima sullo spartito, ma l'esecuzione può essere anche molto diversa e questo non scandalizza nessuno.”

La tua scrittura, specie nelle sue ultime fasi, appare difficilmente classificabile: forme che non sono del tutto poesia si mescolano a forme che non sono del tutto prosa.

È vero, si tratta di un processo ancora in corso: questo dissolvimento dei confini tra prosa e poesia risponde ad una mia esigenza molto forte. Io ho cominciato scrivendo in versi e poi mi sono reso conto che non rispondevano alla ripercussione interiore che io avevo delle parole. Con “Cronache dal centro della notte” e “Tutti senza nome” è venuto fuori questo genere poetico particolare che ha certamente dei precursori, ma io li ho scoperti solo dopo! Mi è capitato, dopo alcune letture pubbliche, che le persone che avevano acquistato un mio libro si meravigliassero di non trovare le parole disposte in versi. Io rispondo che il ritmo, le pause, la “musica” del testo, questo è ciò che “fa poesia”, non l'uso delle maiuscole o di altri elementi puramente visivi della pagina scritta. Questo può piacere o non piacere, ma io trovo che questa forma risponda meglio ai ritmi interni con cui si distribuiscono le parole nella mia scrittura.”

Da cosa nasce l'idea per un personaggio, lo spunto per una poesia?

Nei modi più impensati. Cassandra, ad esempio, è nata una sera d'estate, stavo facendo una passeggiata in auto con un amico per andare a prendere un gelato e ho dovuto fermarmi per scriverne il testo. Non avevo carta con me e ho preso appunti sul retro di una bustina da tè: è venuta fuori come la conoscete, non l'ho più cambiata di una virgola. Questa è stata, però, un'eccezione, di norma i miei testi nascono dal voler mettere a fuoco una tipologia di personaggio, di carattere, di modalità dell'esistenza e dal lavoro che compio attorno a questa idea”.

Secondo te esiste ancora spazio per essere originali in ciò che si scrive?

Sebbene parte della mia produzione sia molto sperimentale, questo non avviene in senso anarchico: io non voglio distruggere la parola, anzi! Il mio è un lavorio attorno alla parola per farla brillare della sua luce, per togliere il grezzo che c'è attorno, le concrezioni che si creano con il tempo. Sono un adoratore della tradizione nel senso che riconosco che tutti abbiamo un'eredità culturale in cui nasciamo e siamo collocati. Secondo me l'ideale sarebbe che ogni autore sapesse inserirsi all'interno di una tradizione ben precisa – che non vuol dire scrivere banalità – perché questo gli permette sicuramente di essere compreso molto meglio. Ci sono dei codici all'interno dei quali bisogna muoversi che consentono alla parola di non essere sterile, di poter essere trasmessa. La difficoltà è come riuscire a lasciare il proprio segno all'interno della tradizione. Oggi scrivono in molti e si pubblica tanto, io penso che sia impegnativo e responsabilizzante rendersi conto di essere scrittore e farlo, ma è giusto assumersi il compito di portare qualcosa di nuovo. L'esercizio continuo della lingua, lo sperimentare, il conoscere, il leggere – siamo un Paese dove si legge pochissimo ma tanti vogliono scrivere – siano gli strumenti per portare il proprio contributo originale: altrimenti sarebbe come pretendere che il nostro corpo funzioni senza mangiare”.

Renzo, secondo te la Poesia può cambiare il mondo?

Bella domanda! Io sono convinto che il dire una parola o non dirla, l'essersi fermati quel giorno a parlare due minuti in più con qualcuno o il non averlo fatto, l'aver risposto o meno ad una domanda, possa cambiare radicalmente il percorso di vita delle persone. Se la poesia, come parola, può accendere una miccia dentro la vita di una persona, aiutarla a guardare il mondo da una prospettiva diversa, allora sì, la poesia può cambiare il mondo, molto più delle armi”.

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