Il Convivio, Anno XVII n. 1 (Gennaio-Marzo 2016, n. 64)

Renzo Cremona, Fossa Clodia

di Vittorio Verducci

Renzo Cremona è un autore veneto nato a Chioggia, città dove vive. Conosce bene il cinese, il neogreco, il portoghese e il georgiano, lingue che ha studiato presso l’Università di Venezia. Traduttore di opere straniere, anche dall’afrikaans, è autore di haiku innovativi e sperimentali in lingua italiana e latina. Numerosi sono stati i suoi libri, di cui molti premiati in Concorsi letterari, e molta sua produzione compare su riviste nazionali e internazionali. L’opera in questione, classificatasi al primo posto nella Poesia in dialetto veneto al Premio Istrana 2015, è una raccolta che, come si legge nell’introduzione, narra “quaranta brevi storie di terra e di acqua”, di cui alcune in vernacolo veneto con a fronte la traduzione italiana, che hanno come protagonista Fossa Clodia, nome primordiale di Chioggia, e il fascinoso ambiente che è la laguna veneta. Ed è così che il libro appare al lettore: come una suggestiva rappresentazione, scritta in forma di prosa ma dal tono poetico, di quei magici luoghi, in cui l’autore s’immerge per poi esprimere tutto un universo di sensazioni, emozioni, pensieri.
Il testo si apre con una invocazione alla Musa, cui l’autore chiede, e con ispirato accento, di parlargli dei meravigliosi luoghi della laguna: dei giorni, lunghi, brevi, o infiniti, pieni di sogni e di leggende; delle sere, dei pomeriggi, dei mattini che inondano le città di risacche e di schiume; dei brandelli di sole e dei silenzi di brina; e infine del senso del vivere tra quelle isole lontane eppur vicine, tra quelle onde, quelle maree che si ritirano e poi si risollevano in un perenne fluttuare. È una introduzione, questa, che costituisce il fascinoso scenario entro cui il poeta inserisce i suoi racconti, e in cui lascia che siano i luoghi stessi a parlare e a raccontare le loro meraviglie. Ed ecco che allora il mare si mostra nel suo continuo ondeggiare, che si ritira e si risolleva a inondare la città di “nostalgie salmastre”; le barene, coi suoi (sic!) “ciuffi d’erba” sono “bassifondi di silenzio” che invitano tuttavia a “emergere dal sonno salmastro” e a “sollevarsi dagli sgocciolii dell’inesistenza”; e Fossa Clodia – il cui nome, romano, sta a significare il bisogno del poeta di ritornare alle sue origini, ma in cui s’intravvede anche l’ansia del nuovo – sorge in un alone di città incantata.
C’è, poi, un personaggio che nel libro campeggia come figura-cardine: è quella del fotografo, una figura metaforica che sta a rappresentare il desiderio dell’uomo di riscattarsi dall’oblio del tempo e di affidare all’immagine sentimenti e passioni da cui s’originano le umane vicende. Ma la fotografia ingiallisce, si consuma, così come la parola, anch’essa soggetta alle impietose intemperie del divenire: che va però recuperata, dato il potere catartico che possiede; così come va recuperato il vernacolo, perché è la lingua-madre in cui una comunità esprime la sua visione del reale. A proposito del vernacolo, il poeta effettua una vera e propria sperimentazione che, partendo dalla tradizione, approda a forme espressive nuove che permettono di scrivere su qualsiasi argomento: di prosa, di poesia e anche di filosofia. Possiamo considerare sperimentazione anche il particolare modo di scrivere da parte dell’autore, che, pur svolgendosi sotto forma di prosa, nel periodare, nella scelta delle parole, nell’uso metaforico del linguaggio fa pensare, come sopra si è detto, alla poesia. È, questa, una forma di scrivere che oggi si sta affermando come “prosa poetica”, anche se c’è chi, in fatto di scrittura, non ama distinguere, in quanto esiste una sola forma d’arte: la scrittura appunto. Di cui il nostro scrittore e, nel contempo, poeta, ha fornito una magnifica prova, come si evince dalle pur poche espressioni sopra riportate.