Pubblicazione: ottobre 2013.
Editore: Edizioni Eva (Venafro, IS).
Collana: I Colibrì.
Codice ISBN: 978-88-96028-93-3.
Note: Il libro, comprendente testi scritti tra il 2010 e il 2012, è una suite in ventidue parti in forma di prose poetiche e monologhi drammatici. Il libro è disponibile in formato elettronico dal 2013.

la scala interrotta.

ti ho scritto una lettera. per farlo, ho chiesto a quello di me che non comprende cosa sia la vergogna di allacciare le parole al sangue e di farle addormentare sulla carta fino a che tu non le sveglierai. tutto, quando ti penso, diventa sciocco; qualsiasi gusto, quando cerco di provarlo sul fuoco, si fa insipido per la paura del tuo palato.
ti ho scritto una lettera e l’ho ripiegata. per farlo, ho chiesto a quello di me che ti conosce di usare, quando ti vedrà, parole che non possano essere fraintese, di essere leggero nel varcare la tua soglia cosparsa di spine.
ti ho scritto una lettera e ho accarezzato l’indirizzo prima di abbandonarla. per farlo, ho chiesto a quello di me che sa dove abiti di non perdere la speranza e di farsi strada tra le macerie e le bombe. sono crollati muri, lo so, sono caduti i tempi, e il tuo forse si è fermato lì.
ti ho scritto una lettera e l’ho consegnata. per farlo, ho chiesto a quello di me che sa camminare di raggiungerti nella casa dove i giorni ti hanno ricoperto di oblio, timoroso che le ore avessero ricucito i tagli su cui le mie dita avevano fermato il tuo sangue. la sua voce ti avrebbe richiamato al mondo, l’uscio si sarebbe aperto.
ti ho scritto una lettera e sono, alla fine, qui sulla tua soglia. per farlo, ho chiesto a quello di me che non ha paura del tuo silenzio di fartela avere, di scordare i gradini, di salire le scale.
ha preso tutti i miei anni in un abbraccio, questa lettera, ha finito per spegnere l’interruttore e mi ha tolto la vista. eppure lo sento, arrivando all’ultimo gradino: quella porta che sto per varcare ormai non esiste più e si è interrotta. tu non ci sei, ti sei tolto dalle mie strade, e nel muschio sulle crepe delle pareti non riconosco più le parole che avevamo scritto quando noi ancora eravamo vivi, ma solo inverni senza fine, tende rimaste accostate, cani che gridarono invano per una strada pazzi di solitudine.

badia nuova in via garibaldi.

entrammo. le porte si dischiusero sulle fronti sudate cinte dall’afa. stavano delle donne, accanto alle loro presenze residue, sedute davanti agli inginocchiatoi deserti. con i ventagli stemperavano il caldo, muovendo l’aria abissale da fondo marino. di quando in quando emergevano fiori, affondavano, riemergevano e si incollavano ai cesti che venivano caricati dalla fretta inerte del trasportatore. la moglie, ricoperta dalla colla di un pomeriggio madido di traspirazioni, aspettava su una sedia che avesse fine quell’inferno traboccante di gonfiori ed estenuante di odori, di formule e di gocciolii cesellati che, metallici, colavano frenetici e liquidi in fuga dal ciborio. scaturiva, dal profluvio graduale che aveva progressivamente inondato le alghe e le rive dei muri laterali, un senso di gradinate e di febbre che stentava a rimanere in equilibrio.
dei ragazzi trascinavano una valigia sopra i marmi e noi nuotavamo sul fondale. dalle estuose policromie gli occhi tornavano ai ventagli, i bisbiglii riproducevano le litanie della calura che bolliva sulla sommità delle sopracciglia. le voci venivano inghiottite dalle maree.
creature fitomorfiche ci osservavano, dalle loro lisce scabrosità di pianta e pietra, mentre i passi si posavano quasi scalzi sul letto del mare. toccai la parete. trasudava l’acqua del fondo, parlava gli umori di un corpo asperso dai lavacri della canicola, e il fonte battesimale taceva, arretrato, in una palestina assediata dal deserto, cinta di fiori bianchi e gialli, immemore ormai del suo giordano, esiliato tra i sedimenti, del tutto secco e riarso.

il baglio.

il giorno era stato caldo. per le strade fiorivano le rose, ma tra i petali sbocciavano costellazioni di sale che bruciavano la fronte non appena si avvicinava al prodigio della fotosintesi. eravamo morbidi. le labbra si accostavano timorose agli altari del nostro silenzio rimanendo stupefatte in mezzo al rituale degli attimi.
i passi vibravano sul pavimento delle nostre vene, i piedi attendevano; terremoti spaccavano l’asfalto sulle vie sgretolando le direzioni che ciascuno di noi aveva già preso: a nostra insaputa compariva così, dalle fenditure, la vera geografia che la vita aveva deciso per noi.
verso sera chiudemmo le porte, e l’accesso al mondo fu sprangato. ma all’interno delle mura il petrolio illuminava lanterne dentro di noi, la notte non voleva lasciarci, affinché brillassero meglio le luci nelle pupille dei nostri occhi.
da allora il tempo ci ha circondati e procede come un bosco pieno di rami e foglie attorno ai nostri cuori. stanno, recintate dalle fronti che in quella sera si incontrarono, tutte le nostre parole più sotterranee circoscritte da perimetri di meraviglie e da miracoli, sedute l’una di fronte all’altra e contornate da fulgori e correnti, cosparse della fuliggine di luce dei nostri volti, brevi e incastonati, per sempre, nel tempo arrugginito e immobile di un’antica icona bruciata.