Pubblicazione: ottobre 2002.
Editore: Edizioni del Leone (Spinea, VE).
Collana: Poesia.
Codice ISBN: 88-7314-043-2.
Immagine di copertina: La maschera con bandierina, di Paul Klee (1925).
Note: Il libro contiene testi scritti tra il 1999 e il 2002. Nella versione elettronica, pubblicata nel 2013, La Pergamena delle Mutazioni è stato interamente rivisto e aggiornato.

la notte è un lago oscuro

che mi espande l’abbraccio
facendovi germogliare
fiori di inappagato silenzio,
un margine che mi riempie la bocca
di circonferenze assetate
e mi bacia di parole mai dette,
le parole che furono scritte dalle tue dita
in un rogo divino
quando annegasti prima dell’alba.

è un lago oscuro, la notte,
che mi scivola attorno,
mi svuota
e mi srotola
come una pergamena di oscene promesse,
come l’alfabeto dell’inguine
che parla alle labbra,
delle labbra che bagnano la parola
e trasformano in terra
l’incomparabile flessione del tuo nome.

è la notte un luogo
dove tu sei fuoco
appiccato al centro dell’impronta dei miei piedi,

il luogo dove tu abiti segrete armonie indecifrate
e sgretoli il senso
delle nostre spade divaricate.

 

le braci.

anche a luci spente
so decifrare il tuo piede:

è quel passo
che danza
palpitando al centro del mio sangue,

la forma che prende il silenzio
conficcato nel fuoco dei miei sensi riarsi.

 

delle metamorfosi e d’altro.

in valli disabitate
s’inerpicava
il tuo ricordo. ma venne la notte

e la mia memoria oscillante
tu la estirpasti

quel giorno in cui il buio
ti sbarrò il passo.

 

poeti.

radici eravamo che attingevano luminose
alle vene della terra,
fertili campi su cui la balbuzie diventava
sublime alfabeto.

eppure

parole ci furono cucite alla bocca
perché meglio brillasse
di un fulgore spento.
così ora le nostre labbra rabberciate
sono altari di silenzio,
intime urla
di un fiore
attorto allo stupore.

 

se il tuo corpo riesco ad impararlo

a memoria,
mi chiedi?

hai una lettera che tengo tra i denti
ed una
che mordo coi piedi:

in mezzo sto io
e ti recito a memoria.

tutto il mio corpo
in un colpo
ripete il tuo nome.

 

hai il capo percorso da cespugli

e le mani da
foreste,
e la tua bocca
conosce il linguaggio degli alberi.

lo capisco dal tuo corpo nudo
che respira fondo
l’amplesso con le mie radici,

lo sento da questo sangue
che nella notte percorre la tua pelle
sconfinata.

 

non è ancora sera, e già

mi inerpico sul tuo territorio,
a ritroso
mi addentro
dove il sangue risuona sordo
la voce a cui non si comanda.

vanno attorno a te
voci scorticate
che nella notte s’inoltrano
fino dentro il mio passato
e mi ardono nelle vene
le tue parole insepolte,
accese come braci antiche e
piantate in forma di chiodi infetti,
come
nomi
che si pronunciano nelle tenebre
in liturgie sconosciute.

 

rituali.

hai labbra confinanti con la mia sete
e per bocca
un enigma
circoscritto da boschi selvatici.

vivendoti accanto
radici mi sono cresciute sotto i talloni
che ora abbracciano le tue
e ho come la sensazione
di sentire pronunciare il tuo sangue
nelle mie vene.

e questo

è quello che accade
quando sollevo il sudario
per vedere il tuo volto,
il momento in cui inciampo
nella coltre di nebbia
al di là dei sogni
in cui sono ricamati
i miei occhi
smarriti.

 

quando in sogno ci incontrammo dopo la caduta di bisanzio

notai che avevi già capelli
che non ricordavo più:
parlavi in un alfabeto irto di spine
e la barbarie del silenzio
ti aveva annebbiato gli occhi.

vecchie fotografie ingiallite
devono avermi costretto a dimenticare,
mi sono state insegnate le vertigini
e i giorni vengono trasformandosi
mano a mano che me ne allontano:
hanno ciascuno forma di uccelli notturni
con un ricordo nel becco
a rinfocolare l’ombra.

e se i miei piedi s’inoltrano nei boschi
qualche volta aggiusto le frequenze
e riprendo la tua stazione:
mi sembra una radio
che parli una lingua straniera. lo so,
le mani che hai
non servono più a scrivere il mio nome
e io da lungo tempo
ho scelto di essere analfabeta.

ma ci sono giorni in cui
pergamene si srotolano
nel buio della tua cattedrale
che hanno il palpito di parole dimenticate
e le mie labbra ammutoliscono
avvolte nel mistero
in cui bruciarono
un giorno
sulla soglia impronunciabile
delle nostre vene.

 

atena.

notte mi chiamano
e sono colei che è buia.

per lungo tempo
credetti avessero spento le luci
e a tentoni ho misurato la stanza.

poi, un giorno,
giunsi al fondo,
ma invano:
mancava l’interruttore.

così da allora
per inventarne uno

racconto solo storie menomate,
corridoi isterici nel dormiveglia,
mani che si aggrappano
nel buio.

 

cassandra.

dicono che il miglior modo
per non essere creduti
sia raccontare la verità.

ho provato a spiegare che il corridoio
che abbiamo imboccato
finisce su scale senza gradini,
ma non mi ha creduto nessuno.

così ho cominciato a dire
le menzogne più cupe,
le assurdità più ridicole,
mi sono messa ad inventare
disgrazie inverosimili,
così, per gioco.

tanto valeva delirare fino all’estremo,
a questo punto,
e ho detto che il carro del sole
non sarebbe più sorto.

come sempre accade
non fui creduta.
questa volta a ragione, però:
avevo inventato tutto.

ma c’è una cosa

che mi getta nel dubbio:
che oggi tutti hanno preso

a camminare

chini sul marciapiede
e arrancando
cercano di indovinarne i confini.

dovunque
si accendono lampioni in pieno giorno,
si bloccano gli ascensori,
si guardano gli orologi:

sono ormai anni che è notte.