lospecchiodicarta.it, 30 novembre 2015

Parliamo della narrativa metafisica di Renzo Cremona

di Francesca Rossi

Tutti senza nome è la trilogia di un poligrafo coevo, Renzo Cremona (Chioggia, 1971), il quale trova collocazione nel panorama letterario italiano contemporaneo. Il termine impiegato per qualificarlo non è casuale: indica la varietà e l’evoluzione della sua produzione, dall’esordio poetico con foreste sensoriali (Cremona 1993) alla prosa lirica della presente opera (Cremona 2006), così articolata: cronache dal centro della notte, cronache dalla notte ulteriore e le vite perpendicolari. Un disegno in tre tempi, dunque, percorso da specifiche cifre stilistiche come l’impiego della minuscola, sempre e comunque; tale scelta, maturata dall’autore a seguito di lunghe riflessioni, ha preso corpo sul finire degli anni Novanta, durante la stesura di lettere dal mattatoio (Cremona 1997), la sua seconda raccolta di liriche. Non si tratta, però, di vezzo stilistico, né di sovversione delle norme grammaticali, tantomeno di adozione di pose pseudoavanguardiste; la motivazione che si cela dietro l’imperante minuscola si fonda sull’eliminazione di ogni tipo di orpello visivo e d’inutile abbellimento formale, quale l’ergersi maestoso di una maiuscola, esaltando perciò la bellezza dell’essenziale. Un repulisti che non comporta distrazioni e convoglia l’attenzione del lettore al contenuto.

Altra acutezza, nel raggiungere il medesimo obiettivo, è data dal singolare layout, anch’esso pensato dallo scrittore. Consiste nell’addensamento e nell’allineamento geometrico della parola sulla pagina, predisponendo un notevole e perimetrale margine bianco; lo sguardo dello stesso lettore è così magnetizzato verso il testo ma, al contempo, è lasciato libero respiro al suo immaginario. Rilevante, infatti, è l’interferenza tra congetture e immagini grazie a un’accorta scelta lessico-cromatica, tanto da instaurare una vera e propria dialettica tra il testo e il suo destinatario, valicando ogni confine spazio-temporale e innescando catene di risonanze interiori.

Da un’analisi di carattere semantico della titolazione, tutti senza nome, emerge dapprima l’idea di collettività espressa attraverso il pronome indefinito, poi l’universalità dell’opera da cui deriva il massimo grado di coinvolgimento di chi si accinge a leggerla; ma il completamento della formula prevede anche il segmento “senza nome”, ecco che l’equivalenza umana si risolve in un’iniziale irreperibilità anagrafica, tutt’altro che controproducente se si considera che il nome di per sé ha funzione di concrezione rispetto all’assegnatario. La sua assenza consente quindi di sviluppare al meglio le potenzialità di essere e vivere, consacrando la poliedricità intrinseca a ogni individuo. La mancanza di generalità si protrae solo nelle prime due sezioni della trilogia; ciò è spiegato dal fatto che i personaggi a esse relativi dimostrano una non comprensione rispetto al proprio ruolo nel mondo e, conseguentemente, alla loro collocazione nel vivere associato. Diversamente accade ne le vite perpendicolari, unità popolata da abitanti muniti di nome e cognome, che sviluppano un timido accenno di consapevolezza esistenziale.

A un’inquadratura “a tutto campo” segue un close-up sulle singole componenti che costituiscono la tricotomia e, attraverso il corpo vivo della lingua, Cremona testimonia la grande mutazione antropologica in atto, argomentando sulla nostra società di certo non perfetta, còlta all’interno di ambienti legati alla routinaria quotidianità (appartamenti, uffici, treni) e non.

In primis va precisato che l’esordio di tutti senza nome è costituito da un prologo conciso ed enigmatico, nel quale viene metaforizzato uno smarrimento totale. A far da sfondo un luogo tanto asettico quanto viscerale: una sala operatoria, sede di dissezione non anatomica ma spirituale; s’innesca infatti un processo di autoanalisi, ardua e complessa, a scopo rigenerativo. Il paziente, una volta sedato, sprofonda nel torpore di cronache dal centro della notte, dove si susseguono atrofizzanti e soffocanti interni bui, che ben si accompagnano all’inverno siderale del fuori e all’ibernazione psicologica dei personaggi.

Per cronache dalla notte ulteriore, invece, è prevista un’ambientazione boschiva, dunque composta principalmente da esterni, a cominciare da una “selva oscura” (Cremona 2006, p. 143) di un centro città, esplicito e originale tributo dantesco; per l’autore segno di competenza nell’attingere da un patrimonio culturale vasto, che gli consente di articolare ponderate interazioni tra il mondo classico e la letteratura coeva. Nonostante le affinità con l’Alighieri, quali, per esempio, la tripartizione dell’opera e l’accurata scelta di tipi di persone (che ben ricorda quella delle tipologie di peccatori del fiorentino), l’inferno del poligrafo chioggiotto è unicamente terreno, la pena si espia hic et nunc, a seguito di una colpa precisa: sprecare le risorse di cui si dispone lasciandosi vivere.

Sopraggiunge poi l’orizzonte equoreo, disteso, sconfinato de le vite perpendicolari: arcipelaghi e litorali australi, illuminati da un sole estivo. Su uno di questi è stato edificato un condominio e i personaggi della terza segmentazione sono tutti inquilini del medesimo palazzo. S’innesca qui il desiderio di riscoperta del sé, un’impresa ardua. Unica guida: la parola.

Infine l’epilogo dalle tinte apocalittiche poiché è in arrivo un secondo diluvio universale, talmente destabilizzante per i condòmini che il giorno del nubifragio abbandonano i loro appartamenti e si dirigono al porto, ma la calamità è sia disastro che riassetto: lì, ad attenderli, una gigantesca arca con la quale salpare verso la salvezza esistenziale; lo spazio previsto per il viaggio via mare è “ismisurante” (Cremona 2011, p. 26), dal momento che si tratta di un’esplorazione introspettiva. Il limes narrativo contemplato da Cremona varia al variare delle ambientazioni, predilige però l’illimitato, il quale si apre una volta superata la linea di demarcazione: dalla semplice soglia di casa si sconfina in periferie, boschi, foreste, mari e oceani. Il tempo della narrazione, invece, non prevede una sua applicazione unitaria e dettagliatamente cronologica, l’unico dato certo è che alla notte segue il giorno e che all’inverno si alterna l’estate; ciononostante il procedere risulta teleologico: un vero e proprio dipanamento vista-mente dei protagonisti, un climax evolutivo, ascendente, verso la salvezza. Ma chi sono veramente i personaggi che popolano tutti senza nome? Sono uomini e donne ipotetici; avvalorano quest’affermazione “tizio e caio” (Cremona 2006, pp. 11-12), pseudo-identità legate al più generale degli esempi, collocate in apertura alla prima unità (fedele alla scelta operata dall’autore, i nomi propri dei personaggi vengono qui rigorosamente riportati privi di maiuscole). Addentrandosi sempre più nella lettura, il generico e l’indeterminato lasciano il posto allo specifico; l’anonimità evolve in un corollario di nomi e cognomi che lo stesso autore combina sapientemente (attraverso una certosina ricerca etimologica) e impasta alla loro impresa. Pertanto il nostro demiurgo plasma esistenze non completamente esistenti, “ombre metafisiche” (Ivi, p. 329) in potenza, affinché il lettore possa incarnarle. Una polifonia di voci narranti le proprie esperienze per condurci a riflessioni profonde, grazie all’intrecciarsi di copiose parabole di vite. La vicenda è stata concepita come polifonica, ciò la sottrae al rigido monolitismo e gli elementi corali, anche se non sempre identificabili, possiedono un proprio timbro, rivelandosi complementari e intonati gli uni agli altri, contribuendo così alla compattezza del racconto.

La trilogia comprende anche brani privi di personaggi, un vuoto solo apparente poiché i testi contemplano una pluralità d’identità, universali ed edotte rispetto al mondo circostante. Espediente aggiunto, che consente allo scrittore di esplorare la multiformità dell’esistenza, in chiave olistica, facendo sì che il grado di analogia tra il pubblico e le tipologie di persone narrate cresca esponenzialmente, a tal punto che al lettore sorge un dubbio: “perché viene l’atroce sospetto che parlino proprio di noi?” (Ivi, p. 328). Perché siamo noi. Infatti, rivolgendo uno sguardo d’insieme all’opera, è possibile individuare un comune denominatore per la molteplicità di personaggi: sono miniature dell’essenza dell’uomo contemporaneo, per di più sottoposto alle problematiche che investono la sua quotidianità. In tutti senza nome, dunque, sono modellate categorie di persone appartenenti al vivere associato odierno, le quali favoriscono il processo d’immedesimazione verso loro stesse poiché risultano algoritmiche nel setacciare e codificare le geometrie dell’anima, regolari e non. Emerge qui l’evoluzione da autoreferenzialità a universalità, riscontrabile certamente in tutti senza nome, ma caratterizzante innanzitutto l’intero e vasto percorso produttivo di Renzo Cremona. La sua è un’opera che contempla la vita, in cui il narratore calibra sapientemente i soggetti mediante l’utilizzo di pronomi personali. Tra tutti spicca “noi”, la prima persona plurale è impiegata per incrementare il tasso di coinvolgimento del lettore; “io”, invece, esplicito o sottinteso, presenta una particolarità: è il mezzo con cui l’auctor si fa actor, secondo poi, sebbene appartenga alla categoria dei singolari, cela intrinseca una plurisoggettività. Attenzione, non si tratta di spersonalizzazione del soggetto o di una sua crisi, ma della scoperta della multiformità presente nello stesso “io”; questi personaggi, quindi, costituiscono “paradigmi atemporali della condizione umana” (Ivi, p. 338). Inoltre, nonostante la demarcazione tipografica netta che scandisce il succedersi delle singole unità e le tre diverse titolazioni, con relativi e differenti sfondi, esiste, sotteso, un fil rouge, con il quale dapprima è imbastita poi ricamata l’evoluzione esistenziale dei protagonisti, perennemente in fieri. Pertanto la ragion d’essere di ogni singola sezione è tale solo in correlazione alle altre; si nota infatti una tessitura narrativa dall’elevato grado di elaborazione e articolazione, costituita da precisi meccanismi “a incastro”: le ripartizioni compongono, come tasselli, un mosaico esistenziale. A dimostrazione di ciò l’alternarsi, su carta, di specifiche macro-tematiche, aventi una loro ciclicità all’interno del tomo e quindi funzionali alla coesione del testo. Tra tutte spicca il panlinguismo e “settimo enigmistico” (Ivi, pp. 236-237) personifica l’apice di rappresentanza del sodalizio stretto tra lingua ed esistenza. Per comprendere maggiormente quanto sostenuto, sono proposti di seguito alcuni frammenti del brano che lo vede protagonista:

ogni giorno, appena sveglio, dopo avere spalancato in tutta fretta le finestre per vedere prima degli altri se il mattino ha finalmente l’oro in bocca e poterlo agguantare, mentre con attenzione controlla nella coscienza se durante la notte non gli è venuta la voglia di spaccare uno dei suoi capelli in quattro, gli capita di trascorrere ore intere davanti allo specchio […]. sono ore che sta sul filo del rasoio, poi, riparandosi dove c’è ombra di dubbio se sia meglio prendere il coltello dalla parte del manico o, comunque, farlo prendere a qualcuno per la lama, si accerta che il dito non vada a mettersi nella piaga anche se alle volte, stanco di tutto questo, vorrebbe, vedendo qualcosa di affilato in cucina, darci un taglio e farla finita. (Ivi, p. 236)

È palese: la sua identità anagrafica proviene dalla «Settimana Enigmistica», in essa la parola è di casa. Il nome, “settimo”, deriva inoltre dal numero sette, cifra che per la cultura occidentale racchiude una pluralità semantica; mentre il cognome, “enigmistico”, rappresenta metaforicamente una miniatura della nostra esistenza, bersagliata com’è di punti interrogativi.

così quando viene sera, guardandosi le mani che, come avevamo detto, non sono bucate ma neanche legate, di ricotta o di pastafrolla, pensa che è davvero contento del suo profilo lungo e basso e di non aspettarsi nulla dalla vita: sarà più difficile restare con un palmo di naso. dopo di che, indossato il suo pigiama scuro, entra ancora una volta tranquillo nella notte, che per forza di cose lui non trascorre in bianco. i sogni, quelli, anche se d’oro, restano nel cassetto: li potrà ritrovare domani allo stesso momento e nello stesso posto. basterà tirare la maniglia. e questa che vi abbiamo raccontato è la giornata di settimo enigmistico, correttore di bozze per case editrici, […] uomo singolare e allo stesso tempo plurale, molteplice diremmo, addirittura plurimo. (Ivi, p. 237)

L’essenza di quest’uomo si realizza in un’ipostasi impalpabile tempestata di frasi idiomatiche, ciò lo porta a essere “plurimo”, qualificazione finale che indica non soltanto la conoscenza della lingua, ma persino la miriade di esistenze che in “settimo” confluiscono. Pertanto la sapiente arte enigmografica di Cremona è qui impiegata per far risaltare l’amalgama lingua-esistenza.

Non solo il lessico e la sintassi di tutti senza nome sono degni di nota, lo è anche il genere letterario cui tale narrativa appartiene, dal momento che avviene un dissolvimento del confine prosa-poesia. Si tratta di prosa lirica, che richiama alla memoria la prosa d’arte italiana degli anni Venti del Novecento. In essa, infatti, si riscontrano i medesimi criteri di strutturazione: dal punto di vista formale vengono rispettate la brevità e l’essenzialità; notevole è anche la scelta di un lessico tanto forbito quanto ritmico da parte dell’autore; rispetto al contenuto, prevalgono tematiche utili a innescare riflessioni e meditazioni. L’orecchio di Cremona, come quello di Emilio Cecchi, è sensibile all’andamento ritmico della frase e la sua sinfonica produzione prosastica si costituisce di armoniose modulazioni melodiche (Ricorda 1995, p. 9), in cui il significante e la sua elaborazione giocano un ruolo fondamentale: la fattura è raffinata e l’essenziale intensità dei testi penetra intimamente. Il suo modus scribendi, però, permette di andare oltre la forma: mediante l’abilità dello scrittore nel manipolare la lingua si edificano mondi altri, atmosfere respirabili, dove abitare la parola è possibile. Ecco che Renzo Cremona è apostrofabile come autore dell’altrove; la sua è pura maieutica del segno, tendente a una dimensione metafisico-contemplativa. La stessa parola, infatti, nervo costituente di tutte le sue opere, è invitata a continui e insoliti rendez-vous su carta.

Concludendo l’excursus di questo calibrato distillato di vite, si riscontra che l’intento dell’artefice è trasmettere essenza umana sotto forma di logos.

Opere di Renzo Cremona citate:

Cremona, Renzo, foreste sensoriali, Spinea, Edizioni del Leone, 1993.
Cremona, Renzo, lettere dal mattatoio, Spinea, Edizioni del Leone, 2002.
Cremona, Renzo, tutti senza nome, Spinea, Edizioni del Leone, 2006.
Cremona, Renzo, neve, Venafro, Edizioni Eva, 2011.

Altri testi:

Ricorda, Ricciarda, Pagine vissute. Studi di letteratura italiana del Novecento, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 1995.