TrapaniOggi.it, 05.12.14,

Cartoline da Trapani, dove i luoghi si fanno poesia

di Ornella Fulco

Renzo Cremona torna a Trapani in occasione del recital Cartoline da Trapani tratto dal suo omonimo libro, dedicato alla città falcata, pubblicato nel 2013. Lo spettacolo, in programma domenica prossima, 7 dicembre, alle ore 18.30 alla chiesa di Sant’Alberto (via Garibaldi), è stato inserito nel cartellone degli “Amici della Musica” e realizzato in collaborazione con Fondazione Pasqua2000 e l’Ente Luglio Musicale Trapanese. Abbiamo intervistato il poeta veneto in esclusiva per TrapaniOggi.it.

D: Renzo, nelle tue opere è frequente la dimensione dell'”altrove”: che si tratti di un “luogo” geografico o storico o anche emotivo, si respira spesso la tensione delle distanze e delle nostalgie. Però, non avevi mai intitolato un libro ad una città realmente esistente. Come sono nate le Cartoline da Trapani?

R: È stato in occasione della XIV Edizione del Premio Letterario Nazionale Erice Anteka che ho cominciato a conoscere Trapani e i suoi dintorni. Il mio libro Il canone del tè si era classificato secondo ed ero stato invitato alla cerimonia di premiazione ad Erice. Era l’autunno del 2008. Ricordo che il giorno prima della cerimonia, durante la quale peraltro ebbi modo di conoscere personalmente Stefania La Via ed Ornella Fulco, con le quali poi si è avviata una bella collaborazione e anche un rapporto di amicizia, salii su ad Erice Vetta, dove avrei pernottato, in cabinovia. In quell’occasione, essendo io ripartito l’indomani stesso, non ebbi altro modo di vedere la città di Trapani se non quello di osservarla dall’alto. Mai avrei immaginato che ci sarei ritornato e mai, soprattutto, avrei immaginato che lo avrei fatto con una tale frequenza. Invece, già nella primavera del 2009, Ornella e Stefania, organizzatrici della rassegna letteraria Terrazza d’Autore, mi invitarono a prendere parte ad un evento che si sarebbe tenuto l’estate stessa; non riuscii per motivi di lavoro a scendere quell’estate ma, quando fui ricontattato l’anno successivo, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione. È così che ha avuto inizio la mia avventura trapanese. L’intesa con le persone coinvolte è stata immediata. Ricordo che arrivai in città con un ritardo di oltre due ore, a causa di problemi dovuti alla partenza del volo, i tempi per provare l’intero recital che avrei proposto erano strettissimi e la paura di non essere all’altezza dell’evento mi attanagliava. Invece ho trovato un’organizzazione ed una professionalità eccezionali, e le prove generali che facemmo nel pomeriggio con Ornella Fulco furono straordinarie: sembrava che ci conoscessimo da anni. I tempi venivano da soli. Quello con Trapani fu, fin dalla prima sera, un rapporto con le persone che mi avevano accolto e che con me si erano intrattenute, facendo del mio soggiorno un momento memorabile. È stato così, percorrendo i luoghi e lasciandomi guidare dalla loro mano che, a poco a poco, mi sono innamorato della città. L’amore da cui mi sono sentito circondato e la calorosa accoglienza che le persone mi stavano tributando creò una specie di corto circuito dentro di me ed è stato così che i luoghi, le memorie e gli amici – perché questo, stavano ormai diventando, alcune delle persone che avevo lungo la strada conosciuto a Trapani – si sono uniti in un mondo di parole che, fin dal mio ritorno a casa, ha preso la forma degli episodi che poi sono diventati le Cartoline. Volevo che la città esistesse così come esisteva dentro di me: non sarebbe stato giusto non nominarla, non nominarne i luoghi, non prenderne idealmente possesso attraverso le sillabe e i suoni e ringraziarla di quello che stava dando a me. Un libro fin troppo reale, sotto certi punti di vista.

D: Ma tu non hai messo piede a Trapani solo in occasione di Terrazza d’Autore. Ci sono stati altri incontri.

R: Quella che si è verificata tra me e i luoghi, tra me e le persone di Trapani che ho incontrato sulla mia strada e che questa strada mi hanno aiutato a percorrerla è stata un’alchimia che non si manifesta tutti i giorni ma, anzi, ha bisogno di tanti elementi per potersi realizzare. Evidentemente nel mio caso questi elementi ci sono stati – e in abbondanza, direi – perché poi il ritorno è stato pressoché immediato. Nel 2010, oltre a quello di luglio organizzato per la rassegna, sono tornato a settembre, ad ottobre e, ancora, a dicembre. Con un’affluenza di pubblico impensabile anche quando la distanza tra un evento e l’altro fu solo di alcuni giorni. Ne sono seguiti altri due nel 2012 – tra cui Neve a Palazzo De Filippi – e poi, quest’anno, la grandiosa messa in scena di Cartoline tenutasi a Valderice a luglio, che ha visto la collaborazione e la cooperazione di numerosissime persone, tra le quali vorrei ricordare, oltre ad Ornella e Stefania, anche Giovanni Barbera, Giancarlo Figuccio e Matteo Gagliano. Ringrazio anche i fotografi Vito Curatolo e Francesco Iovino per aver messo a disposizione alcuni loro scatti dei luoghi di cui parlo nel libro, Enzo Toscano per la musica appositamente composta per il brano La città, dedicato a Trapani, e Tonino Perrera per alcune foto storiche di Trapani provenienti dalla sua collezione, e il poeta Marco Scalabrino per la collaborazione al testo de I Misteri. In questi anni a Trapani sono stato intervistato dalla carta stampata, dalla televisione e dalla radio, e del recital Il canone del tè parlò a suo tempo anche un servizio trasmesso da Telesud. Più di così…

D: Qual è stata la prima cartolina? Com’è nata?

R: Si tratta di Badia Nuova in Via Garibaldi. Una sera di luglio, nel 2010, monsignor Liborio Palmeri propose a me e agli amici di visitare questa bellissima chiesa nel cuore della città. Accettammo subito. Ricordo ancora chiaramente i commenti che facemmo entrando. Si era da poche ore svolto un matrimonio e l’impresario addetto al trasporto dei fiori stava, proprio in quegli istanti, sgomberando la chiesa. La moglie lo attendeva seduta su una delle panche del fondo. Il caldo della giornata non si era ancora placato del tutto. Quello che racconto nella cartolina non è affatto un’esagerazione: è proprio quello che è successo, né più né meno, semplicemente adattato al barocco del luogo. La scrissi sui monti di Asiago al mio ritorno al Nord, qualche giorno dopo.

D: Si può dire che le tue Cartoline da Trapani abbiano trasformato in poesia i luoghi e che, allo stesso tempo, le parole si siano fatte esse stesse luoghi?

R: Credo fermamente che la scrittura sia, tra le tante cose, un modo – tra i migliori, peraltro – per ampliare il nostro mondo e la conoscenza non solo del mondo stesso, ma anche di noi stessi. La scrittura crea mondi abitabili, e nella parola si può abitare. Certo i luoghi fisici sono stati il punto di partenza di Cartoline, per cui un luogo anziché l’altro ha suscitato in me ricordi e associazioni mentali, memorie ed interrogativi; alcuni posti li ho raccontati effettivamente per quello che ci ho vissuto quando li ho visti per la prima volta (è il caso delle Mura di Tramontana), altri per storie che ho immaginato avrebbero potuto svolgersi o essersi svolte in quella cornice; altre volte, invece, sono state le parole ispiratemi dai luoghi stessi ad avere creato un loro spazio e ad avere preso la forma di un luogo trapanese dell’altrove. Un processo in entrambi i sensi, quindi. Ma sempre la città di Trapani lo ha prodotto, qualsiasi fosse la direzione e indipendentemente dalle storie narrate – o, meglio, confessate.

D: Hai scelto una forma di comunicazione come la cartolina, che, apparentemente, in un’epoca di scambi digitali e sempre più rapidi, sembra avere già addosso la patina del tempo andato.

R: Beh, la cartolina ha una dote che altri mezzi non sempre manifestano: permette il tempo della riflessione, riporta alla lentezza delle lettere, alla possibilità di concederci il lusso di pensare, e quindi anche di creare una distanza tra quello che abbiamo vissuto o stiamo vivendo e il modo in cui tutto questo viene filtrato dal nostro universo personale. E le Cartoline sono appunto tutte “filtrate”, quasi “seppiate”, hanno una preponderanza di tempi passati, ormai immodificabili. La memoria viene visitata e rivisitata come un luogo dal quale non possiamo staccarci e al quale facciamo sempre capo nella nostra vita, quasi volessimo cercare di comprendere il nostro percorso ripercorrendone i passi più volte.

D: Quelle che descrivi nelle diverse cartoline sono tutte esperienze reali, cioè che hai vissuto in prima persona?

R: Come ne Il canone del tè erano le diverse qualità di tè, qui sono i diversi luoghi a creare nuovi mondi che, per quanto fatti di parole, sono pur sempre reali. In fin dei conti anche le cartoline non sono solo una foto scattata da qualcun altro, ma anche qualcosa che noi abbiamo scelto rispetto a qualcos’altro, e su cui scriviamo qualcosa, un qualcosa che è nostro. Al luogo imprimiamo la nostra presenza, lo stato d’animo che ci evoca. Quando, durante una passeggiata serale con i miei amici trapanesi, mi fu indicato l’edificio diroccato ai margini di Viale Regina Elena, fu anche suggerito che i lacerti di quella casa avrebbero forse potuto ispirarmi qualcosa. E così è stato. Un episodio mai accaduto del tutto, frutto della compenetrazione di mondi verificatisi e mondi mai verificatisi che solo la parola permette. Ma un episodio assolutamente reale nell’universalità della storia che descrive, che credo chiunque possa fare proprio. Senza quella “scala interrotta”, però, senza quei muri che solo lì esistono e solo lì hanno ragione d’essere, la cartolina non sarebbe stata trapanese, ma di qualsiasi altro luogo. E dato che la scala interrotta è funzionale a tutto l’intero episodio raccontato, si tratta di una delle cartoline più trapanesi del libro.

D: Com’è nata, invece, la collaborazione con il poeta Marco Scalabrino?

R: Stavo completando il libro. Le pagine gemevano, dopo la scrittura dell’episodio dedicato alla Colombaia; sentivo che ci stavamo approssimando alla fine del testo, che il cerchio si stava per chiudere. Dentro la mia testa fremevano con urgenza le immagini turbolente di una processione, quella dei Misteri, nella quale, forse, gran parte della città di Trapani può identificarsi. Capire cosa significhino i Misteri per uno straniero come me credo sia un’impresa quasi persa in partenza: se ne può solo parlare cercando di sfiorare i lembi di questa esperienza di dolore e di catarsi durante la quale il ventre della città ribolle fino allo spasimo. Si può accennare, indicare, svelarne una parte. Niente di più. Alludere, ecco. I Misteri sono tali anche etimologicamente, in fin dei conti. Volevo che questo fremito si sentisse nelle parole e, dato che i luoghi sarebbero diventati parole loro stessi, desideravo trovare un modo per trasformare anche quest’esperienza, per convertirla in segno scritto e farla parlare dalle pagine. Più ci pensavo, più mi convincevo che l’unico modo per far sentire quello che mi occupava era per me un turbolento, caotico e divorante flusso di coscienza, un giardino infernale di suoni dai quali emergessero sì quelli che erano i veri Misteri – la processione, le statue, il percorso attraverso la città e la conclusione all’interno della Chiesa del Purgatorio -, ma anche i miei Misteri, la mia prospettiva, la storia personale che si agitava sotto e che poteva essere la storia di chiunque di noi. Volevo, però, che i Misteri parlassero trapanese. Mi è stato indicato Marco Scalabrino, poeta trapanese doc, che ha fatto tesoro della sua enorme sensibilità e della sua lunga esperienza di traduttore per fare traghettare le mie parole dall’altra parte. Ringrazio i miei amici trapanesi di avermi fatto conoscere una persona di così rara intelligenza e cordialità: sono orgoglioso di ospitare le parole di Marco nel mio libro. Mentre l’episodio avanza e il flusso della processione attraverso le vie si fa sempre più magmatico, la presenza della lingua trapanese tra una riga e l’altra diventa sempre più dilagante, finché non occupa tutto lo spazio rimasto. Mi è piaciuta molto questa trasformazione di un evento in un “luogo” – è l’unica cartolina che si riferisce esclusivamente ad un avvenimento della città e a nessun luogo in particolare – e la trasformazione dell’evento fisico in evento verbale. La parola, alla fine, ha ingurgitato tutto.

D: Qual è stato il criterio di scelta dei brani che verranno presentati al recital?

R: Si è dovuta fare una scelta per una semplicissima – e quindi enormemente complicata – questione di tempi. Come tutte le scelte, è chiaro, qualcosa si prende e qualcosa rimane irrimediabilmente fuori. I pezzi presentati sono frutto di una scelta operata sia da me che dagli altri lettori ed organizzatori dell’evento, ognuno è intervenuto con la propria sensibilità. Volevo, però, che rimanesse il percorso del testo pubblicato, dall’apertura sulle saline e sulla vista dall’alto della città fino alla conclusione tormentata e convulsa dei Misteri, come a condurre anche il pubblico attraverso questo mio personale diario di viaggio.

D: Cos’è la Colombaia? Cosa rappresenta per te?

R: Durante la mia visita a Trapani alla fine di settembre del 2010 feci una gita alla Colombaia assieme ad alcuni amici. L’isola, che ospita l’ex carcere trapanese, è ormai sulla strada di una riqualificazione che dovrebbe permettere di riallacciarla al resto della città facendone un luogo di visita e di riscoperta per tutti. Difficile dire in due parole cosa rappresenti per me questo luogo. La Colombaia, come tutti i posti abbandonati nei quali si continua ad avvertire la presenza di chi li ha abitati, possiede il fascino ammaliante di quegli spazi della memoria nei quali dimoriamo cercando di riallacciare i fili di qualche pomeriggio perduto per sempre dentro di noi. È come se rappresentasse una vita al crepuscolo, o come se fosse l’immagine del nostro animo poco prima dell’imbrunire: è l’attimo in cui si avverte ancora tutto il peso di un’esistenza affaticata, come se ne avvertono le occasioni mancate, i fili strappati, le scuciture mai più ricomposte; allo stesso tempo, però, è come se si insinuasse dentro di noi un inizio di riconciliazione con tutto ciò che è stato, quasi i dolori si stessero sedimentando sul fondo e noi contemplassimo le nostre vite con il distacco che solo dopo la fine di un dolorosissimo fortunale si riesce ad avere. Un’esperienza, quella della visita alla Colombaia, che nessuna legge della fisica potrà mai cambiare e che sono felice di avere fatto assieme ai miei carissimi amici. L’immagine di copertina della versione digitale del libro è il particolare di una foto che scattai proprio prima di rimetterci in barca per tornare in città. Basta guardarla e si capisce come le parole dell’episodio non siano pura creazione letteraria ma rispecchino esattamente la meraviglia incantata che si stava spalancando davanti ai nostri occhi poco prima di salutare l’isola.

D: Una parola sulla forma particolare in cui sono scritte queste Cartoline, che è un genere di confine e non molto praticato in Italia, perlomeno non per il grande pubblico: la prosa poetica. Perché hai scelto questa forma?

R: Credo che la questione vada fatta rientrare all’interno di un altro “problema” più generale: quello della necessità o meno di classificare, dei rischi insiti nel farlo, di quello che emerge o rimane sommerso grazie a o per colpa di queste classificazioni. Più passa il tempo, più i miei libri faticano ad essere visti nella giusta luce ai premi letterari, i quali spesso proseguono in modo inerte una classificazione che, oggigiorno, non ha più ragione d’essere. Già con il libro Cronache dal centro della notte io dissi all’editore dell’epoca che avrei voluto semplicemente definirlo “narrazioni”, ma lui insistette che qualcosa di più comprensibile bisognava pur scriverlo sotto il titolo per far capire alla gente. Fu così che il testo venne etichettato come “narrativa”, col rischio di promettere quello che qualcuno avrebbe legittimamente potuto aspettarsi: trame di percorsi unitari e non frammenti di illuminazioni episodiche. Secondo me, invece, definendo il libro secondo canoni alieni a quelle parole, non si fece altro che confondere il pubblico ulteriormente. Credo si debba considerare, a questo riguardo, un po’ quello che avviene con il linguaggio: ciò che la lingua non contempla, non può nemmeno essere pensato; per cui, se sleghiamo le forme dalle classificazioni canoniche o semplicemente già sperimentate ed affermate, forse c’è la possibilità che emergano nuove forme espressive in un mondo nel quale si dice – a torto – che non si può più creare niente di nuovo. Se la parola rappresenta i mondi che ci portiamo dentro e allo stesso tempo la ripercussione che quelli esterni hanno su di noi, è inevitabile che la forma che essa assume finisca per subire dei mutamenti. Nulla rimane eterno. Nulla rimane invariato. Tutto cambia, e la parola non fa eccezione.