Il Bandolo – Periodico di Cultura fondato a Palermo nel 1901
III Serie – Anno III – No. 26/27 – Novembre / Dicembre 2010 (pagg. 2-3)

Quando la poesia “abita” la parola

di Stefania La Via

Dopo lo straordinario successo del reading “La Parola e l’Incanto” tenuto a Trapani nel mese di luglio nell’ambito della rassegna letteraria “Terrazza d’autore”, il poeta veneziano Renzo Cremona, una delle voci più interessanti nel panorama della poesia contemporanea, è ritornato in Sicilia con altri due readings tratti dalle sue ultime opere. Laureatosi in Lingua e Letteratura cinese, da anni svolge attività di consulente linguistico e di traduttore dal cinese moderno, dall’afrikaans, dal danese, dal neerlandese, dal neogreco e dal portoghese. Grazie ai frequenti soggiorni all’estero è potuto venire a conoscenza dell’opera di molti autori pressoché sconosciuti nel nostro Paese, traducendone per primo i testi in italiano.
Vincitore di numerosi e prestigiosi riconoscimenti letterari, nel 2004 ha pubblicato la sua prima opera di narrativa “Cronache dal centro della notte” (Edizioni Del Leone), cui è seguita, nel 2006, “Tutti senza nome” (Edizioni Del Leone), opera che esplora il territorio di nuove forme narrative e che Giorgio Bàrberi Squarotti non ha esitato a definire una originale reinvenzione del genere romanzo. Cremona è anche autore di haiku innovativi e sperimentali in lingua italiana e latina.
Da anni è impegnato a girare l’Europa con letture e recital destinati a togliere dagli scaffali le parole per avvicinarle ad un pubblico di appassionati sempre maggiore. E tale era in effetti l’attento e folto uditorio del reading tratto dalla sua ultima fatica “Dei vizi e delle virtù”, svoltosi a fine settembre nell’atrio del Palazzo Vescovile di Trapani, che ha ospitato l’evento.
Il testo si articola in una serie di brevi monologhi drammatici in prosa poetica, una “poesia senza verso”, una forma di scrittura che sfugge alle classificazioni tradizionali e di cui colpisce la straordinaria ritmica e la densità semantica. Che cosa è, o cosa sarà, una poesia che venga dopo la prosa? abbiamo chiesto al poeta, e lui ci ha risposto che questo dissolvimento dei confini tra i due generi risponde ad una sua esigenza molto forte, alla ripercussione interiore delle parole.
Il ritmo, le pause, la “musica” del testo, questo è ciò che “fa poesia”, e non l’uso di elementi puramente visivi sulla pagina.
Ad esempio Cremona ha scelto consapevolmente di abolire, oltre ai versi canonici, le maiuscole. Del resto il fenomeno che ha portato la poesia verso la prosa, l’avvicinamento asintotico del verso alla prosa, è stato variamente indagato nella tradizione novecentesca italiana, si tratta di un più ampio orizzonte in cui prosa e poesia interagiscono, si rimescolano, subiscono contraccolpi reciproci.
Anche il secondo evento in programma, i primi di ottobre, un percorso emozionale all’interno dell’opera “Il canone del tè”, un itinerario letterario legato all’aroma del tè dove parola, essenze e profumi, udito, gusto e vista si incrociano per donare un’esperienza totalizzante, ha contribuito, a detta del pubblico estasiato, a smontare gli stereotipi secondo cui la poesia sia inutile o marginale. La poesia è un modo per allargare le dimensioni del mondo, la parola poetica ci permette di creare nuove realtà dove tutti possiamo abitare, perché le parole stesse possono essere “abitate”.
Dare peso ad ogni singola sillaba, donare profondità e vita a tutte le minute realtà che abitano le sue pagine, siano esse piante o persino singole foglie, ricordi, stanze, finestre, oggetti della quotidianità è ciò che questo poeta riesce a fare con straordinaria maestria. I suoi testi sono da degustare, da centellinare lentamente, da assaporare nella calma dei giorni. E sono forse un potente antidoto a quello che appare il vizio più grande della contemporaneità: la reificazione di ciò che ci circonda.
L’esercizio continuo della lingua, lo sperimentare, il conoscere, il leggere – siamo un Paese dove si legge pochissimo ma tanti vogliono scrivere, dice Cremona – è ciò che può aiutarci a dare valore alle parole e a quanto esse rappresentano, perché non si avveri la premonizione che il poeta ci dà al termine del bel monologo su uno dei più odiosi vizi capitali, l’accidia: “fu così che il tempo ci sfuggì di mano […] e qualcun altro visse al posto nostro, qualcuno che nell’acqua ebbe l’accortezza di guardare e riuscì a vedere, in lontananza, mattini lucenti. / il giorno non sapeva più da che parte volgersi, ormai. era la fine del mondo, dunque; e noi non ce ne accorgemmo”.