Talento, Nr. 3 (ottobre 2005) – Il sogno

RENZO CREMONA – Cronache dal centro della notte

di Roberto Tassinari

Una profonda sensazione di solitudine e inquietudine domina queste “Cronache” di Renzo Cremona dalla lettura delle quali, oltre alla palese presa di coscienza della fragilità umana, (forse proprio per rimarcare la nostra piccolezza, l’autore rifiuta l’uso della lettera maiuscola) emerge quella condizione di precarietà imposta dalle tenebre nelle quali l’uomo del terzo millennio nasce, vive e muore.
Il buio in questione non è solamente quello della notte “vera” destinato a ingoiare, dopo la discoteca, due (sic!) ragazzi morti in incidenti d’auto, il primo annegato in un canale, il secondo finito in un dirupo “in mezzo ai sassi e agli sterpi, tra Muravera e Cagliari”, con l’autore che si sofferma sulle ore seguenti il dramma, sui cellulari intenti a registrare tentativi di chiamata destinati a non avere risposta, ma è soprattutto quella oscurità interiore che ci spinge ad accettare di noi stessi solamente la parte che ci piace, relegando l’altra in una metaforica cantina, ingorandone il richiamo: “tanto è buio e non si vede niente”.
Un racconto che rende alla perfezione questa sensazione di dimezzamento è “il campanello”, dove l’incubo si nasconde dietro un’azione banale quale quella del chiuder casa. Gas, luci, finestre, rubinetti: tutto è stato controllato, l’abitazione è immersa nel buio e nel silenzio, il protagonista può partire tranquillo per un viaggio ma quando inavvertitamente preme il campanello… “dei passi all’interno si muovono sordi e pesanti: vengono ad aprire la porta”.
Dallo sdoppiamento alla frammentazione, il passo è breve: è il caso della donna che ha “la sensazione di essere come una matrioska di legno e che dentro di lei ci siano tante altre matrioske (…) e tutte vuote, tutte che stridono non appena le sviti”.
Il senso di precarietà è totale: “quando gli fu diagnosticato il cancro notammo tutti che, in effetti, era quello che più degli altri, nella stanza, stava vicino all’uscita. Fu solo più tardi che ci accorgemmo di avere tutti una porta alle spalle”.
Talvolta il peso della solitudine è struggente: si pensi all’uomo il quale, seduto “a terra, con la schiena appoggiata alla porta del frigorifero” si fa cullare nella notte dal ronzio dell’elettrodomestico o a quello che non accende il cellulare: “meglio tenerlo spento e avere l’illusione di una chiamata a cui non si è potuto rispondere, in fin dei conti, piuttosto che averlo acceso e dover convivere con la certezza del silenzio”. Trattandosi di “Cronache” non possono mancare, nei racconti di Cremona, vari richiami alla quotidianità spicciola, dai ritardi dei mezzi pubblici a quelle due parole, “flessibilità e mobilità”, che avvelenano l’esistenza di un lavoratore precario, in uno scenario denso di pessimismo nel quale il buio è lenito da spiragli di luce dettati talvolta dall’incoscienza, come nel caso dei bimbi che “continuano a giocare a campana, fuori, sull’orlo del baratro”. Il viaggio, che era iniziato con la presa di coscienza della forza della parola scritta quale mezzo in grado di spalancare le porte dell’universo onirico, si conclude con il risveglio e la liberazione da quella che pareva una “notte senza fine”. Viceversa, “dopo qualche chilometro di letargo, si rifece luce sui binari”.